
Uno, due… tre
Riflettendo su parte della mia produzione dalla seconda metà degli anni ottanta e i primi anni novanta , dove molta parte della ricerca artistica avvertiva l’urgenza di significare, più che comunicare valori estetici, dove il bisogno di partecipazione e di assunzione di responsabilità civile si avvertiva come prevalente rispetto a qualsiasi valore di mercato o di mera divergenza, ho avvertito la necessità di riordinare, ove possibile, il suo implicito valore simbolico, l’aura di quell’epoca.
Chi ha vissuto quegli anni ricorda senza difficoltà l’avvicendarsi di eventi sensazionali… la caduta del muro di Berlino, la guerra del Golfo, l’inquietudine delle nazioni all’interno del Villaggio Globale, il disorientamento etico-sociale…
L’opera è metafora dell’impossibilità di uscire da uno schema prestabilito, di liberarsi da una situazione contingente. Va letta sia nella sua condizione statica, che nella implicita azione dell’aprirsi del riavvolgersi sulla culla che, paradossalmente, la accoglie.